Letteratura popolare

Quaderno 17 (IV)
§ (34)

Il prigioniero che canta, di Johan Bojer (tradotto da L. Gray e G. Dauli, casa editrice Bietti, Milano, 1930). Due aspetti culturali da osservare;

  1. la concezione «pirandelliana» del protagonista, che continuamente ricrea la sua «personalità» fisica e morale, che è sempre diversa e pur sempre uguale. Può interessare per la fortuna del pirandellismo in Europa e allora occorre vedere quando il Bojer ha scritto il suo libro;
  2. aspetto più strettamente popolare, contenuto nell’ultima parte del romanzo.

Per esprimersi in termini «religiosi» l’autore sostiene in forma pirandelliana la vecchia concezione religiosa e riformistica del «male»: il male è nell’interno dell’uomo (in senso assoluto); in ogni uomo c’è per così dire un Caino e un Abele, che lottano tra loro: occorre, se si vuole eliminare il male dal mondo, che ognuno vinca in sé il Caino e faccia trionfare l’Abele: il problema del «male» non è dunque politico, o economico-sociale, ma «morale» o «moralistico». Mutare il mondo esterno, l’insieme dei rapporti, non costa nulla: ciò che è importante è il problema individuale-morale. In ognuno c’è il «giudeo» e il «cristiano», l’egoista e l’altruista: ognuno deve lottare in se stesso ecc., ammazzare il giudaismo che è in se stesso. È interessante che il pirandellismo sia servito al Bojer per cucinare questo vecchio piatto, che una teoria che passa per antireligiosa ecc. sia servita per ripresentare la vecchia impostazione del problema del male ecc.

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