Quaderno 15 (II)
§ (62)
L’argomento della «rivoluzione passiva» come interpretazione dell’età del Risoegimento e di ogni epoca complessa di rivolgimenti storici. Utilità e pericoli di tale argomento. Pericolo di disfattismo storico, cioè di indifferentismo, perché l’impostazione generale del problema può far credere a un fatalismo ecc.: ma la concezione rimane dialettica, cioè presuppone, anzi postula come necessaria, un’antitesi vigorosa e che metta in campo tutte le sue possibilità di esplicazione intransigente. Dunque non teoria della «rivoluzione passiva» come programma, come fu nei liberali italiani del Risorgimento, ma come criterio di interpretazione in assenza di altri elementi attivi in modo dominante. (Quindi lotta contro il morfinismo politico che esala da Croce e dal suo storicismo). (Pare che la teoria della rivoluzione passiva sia un necessario corollario critico dell’Introduzione alla critica dell’economia politica). Revisione di alcuni concetti settari sulla teoria dei partiti, che appunto rappresentano una forma di fanatismo del tipo «diritto divino». Elaborazione dei concetti del partito di massa e del piccolo partito di élite e mediazione tra i due. (Mediazione teorica e pratica: teoricamente può esistere un gruppo, relativamente piccolo, ma sempre notevole, per esempio di qualche migliaia di persone, omogeneo socialmente e ideologicamente, senza che la sua stessa esistenza dimostri una vasta condizione di cose e di stati d’animo corrispondenti, che non possono esprimersi solo per cause meccaniche estranee e perciò transitorie?)
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